Giovanni Buzi, La bella pantera (2005)

Giovanni Buzi: Metamorfosi

Lo sento...
Ricomincia.
No... com’è possibile!
Un terribile crampo allo stomaco.
Brividi in tutto il corpo. Soprattutto alle mani e ai piedi.
E alla schiena. Per tutta la spina dorsale, una dolorosa scarica elettrica!
Proprio come l’ultima volta.
La volta che speravo fosse l’ultima.
Ho male dappertutto.
E nausea, nausea, nausea...
Ho solo una voglia: vomitare.
- Marco...
È mia moglie. Sta già a letto.
- Ora vengo.
- Stai ancora al computer? Sempre sul forum con quei quattro stronzi, immagino...
- Lo spengo.
- Fa come ti pare. Io dormo.
- Un minuto...
- Come parli?... Mi sembri strano.
- Vado al bagno. Arrivo.
Cazzo, non riesco a trattenermi: vomito sulle mani, sul tappeto, che schifo! Di corsa al bagno la testa nella tazza vomito ancora: verde, verde, verde!...
Proprio come le altre volte.
No, non ci credo...
Perché?
Dio!, perché proprio a me?
Una fitta alle spalle, come m’avessero infilzato una lancia!
La schiena s’irrigidisce in un crampo terribile!
La spina dorsale si torce, vuole arcuarsi. Sento la gabbia toracica gonfiarsi, l’intestino squarciarsi.
Cado a terra contratto in spaventose fitte di dolore.
Chiudo forte le mascelle. Premo le mani sulla bocca per soffocare le urla che non riesco a far morire dentro di me.
- Marco?
Ancora quella troia... ma che cazzo vuole?
- L’hai spento quel maledetto computer? Un giorno o l’altro te lo butto dalla finestra!
Devo uscire.
Devo riuscire a rialzarmi.
Devo prendere quella borsa. Per forza.
Ancora una fitta alla schiena, più d’un violento colpo di frusta!
Non riesco a soffocare un urlo.
- Marco! perché hai acceso la televisione?
Devo uscire; succederà tutto come le altre volte.
Sono sicuro...
La mascella mi fa un male della madonna, come volesse schizzare in avanti, di lato, in ogni direzione. 
Devo uscire.
Uscire!
Riesco ad alzarmi. M’appoggio al muro, mi trascino fino alla porta. La sacca... porcatroia, la dimenticavo!
Torno indietro. Vado allo studio, apro l’armadio. Sta lì.
Di plastica nera. Chiusa. Pronta. Sembra aspettarmi.
La prendo. Torno verso la porta. Sopporto fitte allo stomaco. Continue. Lancinanti. Prima di toccare la maniglia, una terribile scarica elettrica mi brucia cazzo e coglioni; mi piego in due dal dolore!
- Marco?
Vaffanculo!
Apro di scatto la porta.
No... le dita adesso.
Sento le dita delle mani e dei piedi irrigidirsi, arcuarsi.
E continuo a vomitare; sul pianerottolo, giù per le scale.
Se incontro qualcuno? Per fortuna sono quasi tutti in vacanza ai primi d’agosto. Noi dobbiamo partire tra quindici giorni.
Mi viene quasi da ridere...
Che ne sarà di me, tra quindici giorni?
Vedo il portone aprirsi.
Chi cazzo è?
Quella puttana...
Mi nascondo qua dietro.
Quasi non respiro.
Forse, non mi vedranno.
Non devono vedermi.
Perché già rientra la cagna? Non sarà nemmeno mezzanotte. Ha rimediato un giovincello, stavolta.
Trattengo il respiro.
Aspettano l’ascensore. Ridono. Lei dice di non far rumore. Lui gl’infila la mano in mezzo alle cosce. È ubriaco, non riesce a stare in piedi. Gli si butta addosso: “Ti scopo qua!”, “Parla piano”, dice lei.
E io che vorrei urlare come una bestia. Dal dolore. Dalla fame. La fame che mi scava lo stomaco, m’irrigidisce il cazzo!
Anche le gambe, adesso... Tremano. Le sento rattrappirsi.
No, Cristo no!... Ma perché, perché?
Vorrei sbattere la testa al muro. Contro questo marmo bianco cadavere. Non mi resta che uscire e schiantarmi contro una macchina. Morto spiaccicato a terra. Pianti, lutti, funerali e dimenticato dopo due mesi.
No... io voglio vivere!
Brava troia, prendiglielo in bocca, qua, davanti alla griglia dell’ascensore, così si calma. Ti cambia dai soliti vecchi bavosi, vero puttana?
Arriva l’ascensore. Entrano. Ecco bravi, toglietevi dai coglioni o sbrano anche voi!
Ho fame, fame, fame, FAME!
Come le altre volte. Più delle altre volte.
Di più. Ogni volta di più.
Sarà sempre così? Fino a quando?
Esco in strada.
L’aria tiepida della notte mi dà un momentaneo sollievo. Spalle contro il muro, respiro.
Stringo la sacca nera; l’unica mia salvezza.
Non posso restare qui. Correre, devo correre...
Vomito ancora. Un getto pestilenziale. Verde marcio. Un po’ m’esce anche dal naso. Continuo a correre respirando quel tanfo risalito da dentro me.
Mi cominciano a bruciare gli occhi. Si riempiono d’un liquido acido che trasborda e mi riga le guance.
Un dolore lancinante alle mascelle.
Cerco di non urlare, di non cadere nel panico.
I denti adesso. Spingono, s’allungano, li sento lacerare l’osso della mascella.
È insopportabile!
Mi cola giù dal mento una bava verdastra. Nauseante.
Il naso rientra a scatti nel viso con la forza d’un chiodo infisso a colpi di martello!
E Roma che resta così bella... com’è possibile?
Com’è possibile che il cielo sia tutto stelle, l’aria di velluto, mentre io sto qua a soffrire come un cane. Peggio d’un cane.
Per fortuna che c’è poca gente per i vicoli del centro. Un motorino mi viene incontro all’impazzata, m’acceca e continua a ronzare assordante fino a perdersi lontano.
Devo arrivare presto al giardino. Presto. Prima che...
Questa volta non ho avuto tempo neanche d’andare a vedere mia figlia... Marina dorme come un angelo nella culla. Neanche la consolazione di rubarle un po’ di quel profumo che sempre la circonda, che le sta intorno come il guscio ad una noce.
Sbatto una spalla contro una sporgenza del muro.
Vaffanculo! Continuo a correre.
Ancora brividi gelidi per tutto il corpo.
Mi fermo di scatto. Mi cade a terra la sacca.
Resto bloccato ad arco.
Lancio un urlo bestiale!
La coda, madonna!!...
Il coccige ha bucato i pantaloni!
Mi cresce la coda... come le altre vole, come le altre volte.
Cado a terra dal dolore e dalla vergogna.
Mi cominciano a bruciare i coglioni, come buttati su braci ardenti. Il cazzo s’impenna in uno scatto violento. Lo so, non si calmerà finché non avrà sputato quel sangue bianco, colloso, che puzza d’acque putride.
Dio mio, che ho fatto di male?
Perché questa condanna?
Perché questa tortura?
Perché a me?
Ancora un conato di vomito, porto una mano alla bocca.
NOOO...
S’è già trasformata!
Artigli, peli neri e scaglie, quelle orrende scaglie verdastre!
Guardo i palmi: pelle rugosa e screpolata.
Sfiderei qualunque chiromante a leggere questo labirinto di ferite.
E se andassi verso il Tevere...
Un salto e sarebbe tutto finito.
Tutto.
Invece continuo a correre verso Villa Borghese, rasente i muri di via Ripetta come un cane rognoso.
Sento le gambe rattrappirsi, i muscoli irrigidirsi. Le ginocchia sembrano calcificarsi, eppure qualcosa mi spinge a correre, correre...
Verso dove, perché?
So bene dove vado e perché.
DEVO spegnere questa fame che mi fora lo stomaco come metallo incandescente. E per farlo c’è un solo modo: odorare, leccare, succhiare sangue e mordere, sbranare, infossare il mio muso nella carne.
Carne e sangue d’esseri umani.
E su quei resti, scaricare poi getti bianchi e freddi che schizzano dal mio cazzo, come fiotti di materia gelida su una colata di lava.
Ormai non riesco quasi più a camminare in posizione eretta. Striscio lungo i muri come una belva famelica, un rettile.
La schifosa bava verde continua a colarmi dalla bocca.
Mi fermo contro una vetrina.
Raggelo!
I miei occhi: due lame fosforescenti.
E quel viso di chi è? Viso... maschera di clown struccata a metà, d’ibrido di serpe e sciacallo, mostro degli inferi... Do una gomitata alla vetrina che esplode mandando in frantumi quell’immagine demoniaca.
Braccia e gambe si sono rattrappite, irrobustite. Le mie ossa sembrano d’acciaio. La pelle si ricopre a vista d’occhio di corti peli radi, neri.
Come le altre volte... come le altre volte...
Braccia e gambe sono ormai zampe tozze e squamose. D’una potenza micidiale.
La coda è cresciuta. La sento sbattere sull’asfalto, voluminosa, ingombrante.
Sento una forza nuova, sovrumana circolare e propagarsi in ogni angolo del mio corpo.
Mio?...
Devo fare attenzione alla sacca che ho a tracolla.
L’unica mia salvezza.
Quando avvertirò quella sensazione che temo più d’ogni fitta, d’ogni spasimo di dolore fisico?
Quella sensazione che mi gonfia il petto e non mi fa più avvertire... la paura. Il terrore che qualcuno possa vedermi. In pochi istanti, lo so, da orrenda vittima in metamorfosi che evita ogni essere umano e si vergogna di se stesso, sarò una vera belva, un mostro risorto dalle viscere dello Spazio e del Tempo.
E felice d’esserlo.
È all’improvviso che accade, mentre le unghie dei piedi scattano in avanti con uno strappo della carne e del cuoio delle scarpe.
È in quel momento che m’esplode nella mente un lampo di piacere al fosforo.
Correre correre correre e non più per fuggire, ma per respirare appieno quest’inebriante orgasmo di libertà!
Una liberazione, più d’una liberazione!
Sono un mostro, uno essere schifoso, un ibrido orrendo, un fantasma degli Dei del Buio e della Morte, e felice, felice d’esserlo!
Felice d’essere nato, felice d’esistere, di sentire l’odore inebriante della terra, del sangue, della carne.
DEVO arrivare a Villa Borghese.
Ormai non è lontana.
Non devo dimenticare di nascondere la sacca.
Se non ci riesco, sono perso.
Devo fare attenzione a quando attraverso Piazza del Popolo. C’è sempre gente. Non è ancora il momento e il luogo per mostrare i miei talenti.
Le tempie battono come ossesse. Il cuore pompa sangue che non so per quale magia si raffredda ad ogni istante.
Non c’è nessuno sulla piazza, solo una coppia che sale verso il Pincio. Non ho tempo di guardare cielo e stelle. Chiese e palazzi. Devo attraversarla, al più presto.
Un’ombra svicola veloce; l’ombra d’un ibrido di iguana gigante, lupo, coccodrillo, leone... Non troppo differente d’uno di quei mostri scolpiti attorno ai portali delle chiese gotiche, dallo sguardo di fuoco d’un Cerbero.
La metamorfosi è compiuta, lo sento. Ho solo voglia di respirare l’aria della notte, profumata d’estate, muschi e... carne viva.
Sto a Piazzale Flaminio. Resto nascosto sotto al portico; passano macchine, qualcuno attende il verde del semaforo.
Non mi chiedo più perché sono ridotto in questo stato, il perché di questa fame, di questo appetito immondo, talmente potente da trasformare tutto il mio corpo, rendere le mani artigli, le gambe e braccia zampe.
Entro nelle penombre di Villa Borghese. Dietro ad un cespuglio strappo di dosso i brandelli della mia vecchia pelle: quel che rimane dei vestiti lacerati dall’esplosione d’ossa e muscoli del mio corpo.
Sì, il MIO!
Metto ciò che resta dei vestiti, i brandelli delle scarpe nella borsa. La nascondo dove neanche le altre volte è stata trovata. Dentro c’è un ricambio completo e un asciugamano.
M’allontano. Scivolo lento col mio corpo mostruoso, regale, sul prato. Fiancheggio il laghetto, scendo ancora un po’. Non mi resta che accovacciarmi nell’ombra e aspettare.
Accovacciato come una Sfinge, sento il fresco del prato dare sollievo alla mia pancia, al cazzo eretto, ai coglioni che bruciano. Non avverto più dolori, scariche elettriche, anche lo stimolo terribile della fame sembra essersi calmato.
Ogni mio senso, ogni muscolo, tendine sono all’erta, tesi ad un unico scopo: sbranare.
Il mio respiro è calmo. Gli artigli s’infossano lenti nella terra.
Attendo.
Lo so, tra poco perderò anche la facoltà di pensare come un essere umano.
Come le altre volte.
Solo allora avrà inizio la mia vera, unica, gioia: essere bestia. Completamente.
Nella mente, i significati cominciano a scollarsi dalle parole. Ancora qualche minuto e le idee non saranno che fini brandelli di cenere che un soffio disperde.
Saziata la fame di sangue e carne, scaricato a getti tutto il mio sperma sui resti dei corpi, non dovrò far altro che raggiungere il laghetto. Entrerò nell’acqua, m’immergerò e resterò sul fondo ad aspettare. Aspettare di ritornare essere umano.
Con un colpo di reni, sarà facile risalire in superficie. Mi vestirò con quello che sta nella sacca e tornerò a casa.
A mia moglie che dirò?
Quello che ho detto le altre volte; mi sono sentito male e ho corso per tutta Roma alla ricerca d’una farmacia aperta.
Sì, sarà facile, fa.. ci...
AAHHHRGHH!

*

Il Messaggero 4 agosto 2003:
“Il mostro di Villa Borghese ha colpito ancora. Ieri notte è stato compiuto un nuovo, atroce delitto. Il terzo. Sicuramente il più barbaro. Alle 7 e 47, Maria Letizia Brambilla, 65 anni, come ogni mattina faceva jogging. Ora è ricoverata, sotto shock, al San Camillo. La scena che s’è presentata ai suoi occhi è indescrivibile. Su un prato poco distante il laghetto, avvinghiati in un ultimo abbraccio, Mara Casorati, 17 anni, e Mauro Triulli, 19, sono stati identificati grazie ai documenti rinvenuti nei brandelli sparsi degli abiti. Accanto alla massa mutila dei cadaveri sono stati trovati sbranati due cani di grossa taglia. Uno presenta uno squarcio dalla gola al sesso, l’altro ha la spina dorsale spezzata e la testa quasi del tutto staccata. Peggiori sono le condizioni dei corpi dei giovani amanti. Da chi, come, quando, perché è stato commesso un tale immane delitto? Questi interrogativi restano, per il momento, senza risposta. Gli unici dati certi sono tre: 1) la somiglianza per luogo, ora ed inumana violenza con gli altri due delitti compiti nell’arco dei sei mesi scorsi. Valeria Stanzi, 29 anni, prostituta e Alberto Capitani, 22 anni, passeggiatore. 2) L’assenza d’ogni impronta di passi, d’una o più persone, che possano riferirsi agli eventuali assassino/i. 3) La presenza di tracce, molto confuse, che si dirigono verso il laghetto e spariscono sulla sponda di fronte al tempietto. Sembra che qualcosa di voluminoso e pesante sia stato trascinato e poi gettato nel laghetto. Per ora, le ricerche della squadra della polizia subacquea non hanno dato nessun risultato. Dall’efferata violenza impiegata, gli inquirenti suppongono, più che l’atto di maniaco/i, l’esistenza d’un gruppo di pericolosi cani randagi. Prova sarebbe la presenza dei cadaveri dei due esemplari rinvenuti. Come per gli altri delitti, resta un mistero il rinvenimento d’abbondante massa gelatinosa sui cadaveri. All’apparenza tratterebbesi di liquido seminale. Campioni sono oggetto d’esame da parte della scientifica. Il riserbo a riguardo è totale. Prima del completo chiarimento della vicenda, le forze dell’ordine raccomandano di non avventurarsi nottetempo nei giardini della capitale. Per il resto, si brancola nel buio”.     

*

- Marco?
- Sì...
- Che ci fa qui nell’armadio la tua borsa di sport con dentro vestiti, scarpe e asciugamano?
- Avrò dimenticato di toglierli l’ultima volta che sono andato in palestra.
- Per la palestra, ti porti anche il cambio delle scarpe?
- Ah, sì... non te l’ho detto?
- Cosa?
- Ho intenzione d’andare con Pietro a Ostia. Ho cominciato la valigia.
- Sì, me l’avevi accennato. E per quando?
- Forse il fine settimana prossimo.
- Perfetto, per me. Ho promesso a mia madre d’andare una volta con la bambina al paesello. Inutile, credo, chiederti d’accompagnarci.
- Esatto.
...
- Marco...
- Sì.
- Che fine hanno fatto la tua camicia verde, i pantaloni avana e i mocassini?
- Boh, lo sai quanto sono distratto.
- Caro... ti prego, fa attenzione; è la terza volta che non trovo roba tua.


***


- Marco.
- Sì...
- Per una volta, non ci accompagneresti al paese? A mia madre farebbe molto piacere.
- Perché insisti; lo sai che non sopporto né tua madre né il paese.
- Sai che ti dico: sei proprio un mostro!