Giovanni Buzi, Frammento (1995)

Giovanni Buzi: Casta Diva

Napoli. Tramonto. Pioggia battente.
Scrosci e raffiche di vento contro vetri.
Nel piano nobile d’un palazzo barocco del centro storico, s’apre a forza una finestra. Pesanti tende di broccato bordeaux s’agitano e lasciano entrare un colpo di vento e pioggia nel salone immerso nelle penombre. Dal ripiano d’un mobile in legno intagliato e dorato, una foto si schianta in frantumi sul pavimento in marmo. Tra le schegge di vetro, il ritratto d’una bella donna che sorride. Un lungo abito color avorio, un gran mazzo di rose bianche sul seno. A quel rumore, in una stanza accanto, una donna volta il capo. Dallo specchio della toletta il suo profilo appare, come sempre, perfetto. La donna posa la spazzola d’argento inciso sul marmo nero della toletta. I lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle, s’alza e va verso una porta a specchio. Nell’aprirla, un lampo grigio acciaio le cancella il volto. A passi lenti, tra le penombre, si dirige verso il salone. La vestaglia di mussolina rosa antico bordata di piume bianche le dà la leggerezza dei fantasmi. Dalla porta socchiusa della stanza da bagno proviene un vapore profumato di magnolia e sangue fresco; l’aroma tipico di Hamabilis, i suoi sali preferiti. La donna arriva nel salone. Si guarda intorno. Dalla finestra aperta viene un odore di terra bagnata e glicine. Le luci viola arancio del tramonto danno un riflesso fluorescente alle penombre del salone. La donna si dirige verso la finestra, allunga una mano, esita un momento, poi la lascia aperta. Voltandosi, lo sguardo le cade sulla foto caduta a terra. A vedersi ritratta al di là del vetro in frantumi, un sorriso le vela le labbra disseccate. Chi si ricordava ancora di Marianita Serpi Annoni, della sua voce capace d’infrangere il cristallo? Quella che era stata una delle regine più acclamate della lirica, altro non era che lo spettro di se stessa. Con l’incedere di un’antica vestale, Marianita esce dal salone e si dirige verso la stanza da bagno. Entra, si siede sul bordo della vasca in pietra bianca. Leggera, una mano affonda nell’acqua tinta del verde delle ali dei coleotteri, il colore di Hamabilis. Lenta, la mano si muove; l’anello d’oro e polvere di diamanti rimanda un luccichio di stella persa in fondo all’universo.
Uno schianto di vetri rotti!
Il vento aveva mandato in frantumi una finestra? Marianita, lo sguardo perso nel verde dell’acqua, resta a respirare l’aroma tiepido di Hamabilis. Sarebbe stato l’ultimo profumo che avrebbe sentito. Così aveva deciso.
Fuori, il temporale continua a infuriare. Lo sguardo di Marianita cade sul bordo della vasca di pietra. Un bianco così candido da far pensare a un cranio abbandonato da secoli al sole. Su quella pietra, brilla la lama d’un rasoio. Di lì a poco, Marianita si sarebbe immersa nel verde puro di quell’acqua, avrebbe abbandonato il capo e respirato il profumo inebriante di Hamabilis. Leggeri come baci d’amante, avrebbe posato sui polsi due tagli con la lama affilata. Lasciate le braccia nell’acqua, avrebbe atteso che nel verde iridato si disegnassero volute rosse; con quell’immagine avrebbe abbandonato il mondo. Il mondo che da secoli aveva abbandonato lei. Attraverso il vapore dell’acqua, avrebbe visto il sangue fuoriuscire dai polsi come steli di piante carnivore che crescono e ramificano; le avrebbe seguite finché lo sguardo non si fosse sfocato e spento. Seduta sul bordo della vasca, cancellando ogni pensiero, Marianita scrive con le dita sull’acqua, in una lingua sconosciuta. Rumore di passi nel corridoio. La donna arresta la mano, volge il capo. Al di là della porta socchiusa, i passi si fermano. Nell’aria il vapore di Hamabilis vaga e impregna di sé ogni cosa. Il respiro della donna si fa ancora più leggero. La vestaglia di mussolina rosa antico le cade sul corpo senza un fremito, perfino le piume bianche sembrano scolpite nella pietra. Lentamente, la porta s’apre. Marianita interrompe il respiro.
Luce grigio acciaio; lo sguardo d’un adolescente.
Per molti era da galera, per alcuni da letto, per altri un rivale; per tutti era Vlady, 16 anni, rumeno, alto e forte. Scarpe da ginnastica, jeans slavati, t-shirt nera, un coltello in pugno. Marianita lo fissa un momento, poi, portando una mano alle labbra, scoppia a ridere. Una risata di cuore, liberatoria, come da anni, da decenni non le capitava. Vlady ne è sorpreso. Offeso.
«Perché ridi, vecchia troia?», dice con pronuncia stentata.
Marianita continua a ridere, e intanto l’osserva. Le gambe sono muscolose, come le spalle; deve aver cominciato presto a esercitare il fisico. Nelle mani è rimasto qualcosa del bambino. Le dita sono sottili, bianche, quasi fragili, eppure tiene il coltello con forza, la stessa d’un rapace che stringe la preda. Il petto del ragazzo si solleva cercando di ritrovare un respiro regolare. Dev’essersi arrampicato per il glicine che ricopre parte della facciata dell’antico palazzo. Come aura tattile, un po’ dell’odore del glicine gli è rimasto intorno. È bagnato. Jeans e maglietta s’incollano alla pelle, i capelli biondi alla fronte. Sulle guance, a momenti, scorrono gocce di pioggia che restano sul mento e poi scivolano giù, verso il collo bianco marmo.
«Perché ridi, troia?», ripete il ragazzo con voce da adulto.
Marianita smette di ridere. Lo fissa negli occhi e, con tutta calma, risponde: «Hai dimenticato vecchia».
Il ragazzo rimane spiazzato, non dalle parole, dalla voce della donna. Lontana e leggermente graffiata, da vecchio grammofono.
«Non ti sembro forse vecchia?», e così dicendo, Marianita s’alza e lascia cadere a terra la vestaglia. «Scusami, – aggiunge – non è uno strip-tease; ho qualcosa da fare, adesso».
Vlady è rimasto col coltello teso nel vuoto. Con occhi sgranati, guarda la donna entrare nella vasca da bagno. Più che “vecchia” sembra un vero scheletro. Uno scheletro coperto da pelle rinsecchita e opaca come pergamena. Solo nei capezzoli dei seni cadenti è rimasto un accenno di vita; un tono tenero, di bocciolo di rosa. Marianita rivolge lo sguardo all’acqua smeraldo che, con un fremito, l’accoglie. Il ragazzo osserva la donna prendere con delicatezza il rasoio con la mano destra e, con un gesto leggero, incidere il polso sinistro. Marianita rilascia un sospiro, poggia il capo sul bordo della vasca da bagno e, senza guardare il ragazzo, dice: «Vai caro, va’ di là e ruba quello che ti pare. A me non serve più niente. Buona fortuna».
A Marianita non resta che distendersi, abbandonarsi, dimenticare. A Vlady non resta che… in quel momento, non sa più cosa fare.
«Ehi, miss Universo! – dice con un tono che si vuole spavaldo – Che c’è di buono da rubare qua dentro?».
Sul bordo di pietra bianca, la donna volta appena il capo e dice: «Di buono… che intendi?».
«Di valore».
«Be’, nel salone c’è un mobile Luigi…».
«Ehi, bella, m’hai preso per uno dei traslochi? Soldi servono a me, altro che mobili Luigi. Dove tieni la grana?».
«Grana…?!».
Il ragazzo la fissa. Il viso della donna è scavato. Ogni istante di più, assomiglia a un vero teschio. La luminosità dei suoi occhi nocciola sembra spegnersi. Le labbra screpolate sono sabbia. Il corpo si scompone e ricompone nel verde trasparente dell’acqua. Dal polso, s’apre un fiore rosso. Vlady getta a terra il coltello e, senza riuscire a contenere la forza che sente esplodere in lui, si butta nella vasca sulla donna che affonda nell’acqua verde. I lunghi capelli bianchi s’agitano come una spettrale medusa mentre una sfumatura rosso sangue invade il viso esterrefatto della donna.
«Allora – la fa riemergere a forza il ragazzo – dove li tieni nascosti questi cazzo di soldi?».
La bocca di Marianita sputa acqua verde. I capelli bianchi s’incollano alle tempie, alle guance, al petto. Come ipnotizzato, Vlady resta a fissare i seni scarni e, soprattutto, i capezzoli rosa che a contatto con l’acqua calda e il sangue sembrano inturgidirsi, rivivere. Un crampo tra le gambe, il ragazzo sente il cazzo indurirsi. Possibile che quel semicadavere l’ecciti? Con un gesto di ripulsione, lascia ricadere quella mummia nell’acqua. L’agitarsi dei capelli bianchi macchiati dal sangue cancella il viso di Marianita. D’impulso, Vlady tira giù lo zip dei jeans, espone il cazzo eretto e si getta sulla donna; non è più un essere umano, è una forza cieca che deve esplodere. E quella forza si concentra nel sesso, nelle mani e nella lingua che, avida, cerca sott’acqua quella della donna, o della morta. Fa riemergere quel viso cadaverico, lo libera dall’appiccicarsi dei capelli e, quasi dolce, posa le sue labbra su quelle senza vita di Marianita. Dolce sì, quel bacio è adesso dolce. Le mani esplorano il viso, gli occhi chiusi, gli incavi delle guance, il collo, i seni flosci e quei capezzoli che sembrano gonfiarsi di linfa vitale. È in quel momento, che sente il cazzo incunearsi tra le gambe scheletriche della donna, come punteruolo di legno nel cuore sempre vivo d’un vampiro. Vlady insinua la lingua nella bocca di Marianita. Un brivido d’orrore e d’indicibile piacere l’assale quando sente sconnettersi la dentiera della donna. Falsi denti che vorrebbero scivolare giù nell’esofago, nello stomaco e continuare a divorare. Aprendo di scatto le palpebre, Marianita, sputa via la dentiera e, fissando il ragazzo, dice: «Fammi vivere!».
Vlady sente quella forza che l’invade moltiplicarsi. Fissa la schiena della donna alla pietra della vasca e, strizzandogli forte i capezzoli, si lancia in una serie d’affondi violenti di cazzo e reni.

***

Tra poco il sole sorgerà.
Vlady solleva le palpebre. È nudo, disteso su un divano del salone. Attraverso i merletti stinti delle tende proviene una luminosità oro pallido. Da una vetrinetta antica rilucono oggetti in argento coperti di polvere. Una porta decorata con un trompe-l’oeil di terrazza sul mare s’apre e compare Marianita. La vestaglia di mussolina rosa antico bordata di piume bianche è in più parti macchiata di sangue.
«Buongiorno Vlady. Gradisci una tazza di caffè?», dice la donna.
Il ragazzo l’osserva; sembra ringiovanita. Ha gli occhi nocciola lucenti, le guance colorite d’un rosa pastello, come le labbra. I capelli bianchi sono raccolti in uno chignon.
«Lo sai, qui da noi si dice: chi tace acconsente?», prosegue la donna.
Senza rispondere, il ragazzo continua a osservarla. Il suo sguardo si posa sulla banda bianca macchiata di rosso che fascia il polso sinistro della donna.
«Bene, – continua Marianita – loprendo come un . T’aspetto nel salotto verde», e detto ciò, gli dà le spalle e se ne va.
“Strana bestia”, pensa Vlady guardando sparire l’anziana signora che, nella vestaglia insanguinata ha l’aria d’un fenicottero ferito. Il ragazzo vede il suo coltello a terra. S’alza, lo raccoglie e, cauto, segue la donna. Un corridoio lo porta in un vasto ambiente dalle pareti tappezzate di velluto verde muschio. Mobili antichi, tappeti, ninnoli, quadri, incisioni, vecchie foto. Il tutto sembra all’abbandono. Marianita l’attende in piedi accanto a un caminetto di marmo bianco. Alle sue spalle, un dipinto la ritrae giovane, bellissima, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, indosso una leggera tunica bianca.
«Sì, sono… ero io. Norma, il mio più grande successo».
Vedendo lo sguardo interrogativo del ragazzo, Marianita sorride appena. Si dirige verso un grammofono. L’accende, apre le braccia e, in modo teatrale, le alza. Solleva un poco il capo e, socchiudendo le palpebre, sussurra: «Ascolta».
In religioso silenzio, attende le prime note della famosa aria: Casta diva, che inargenti / queste sacre antiche piante / a noi volgi il bel sembiante / senza nube e senza vel… / Spargi in terra quella pace / che regnar tu fai nel ciel…
Vlady, nudo, il coltello in mano,resta in ascolto. Marianita muove le labbra, quella voce sembra uscire dal suo corpo. Ancora una volta, il ragazzo lascia cadere il coltello. Lo sdleng metallico sul marmo del pavimento è assorbito dalle ultime note di quell’aria. Marianita abbassa le braccia e, come richiamando a sé il suo spirito errabondo, fissa il ragazzo e dice: «Allora, t’è piaciuta?».
Il ragazzo non risponde.
«Sono stata una regina indiscussa negli anni ’20», dice quasi a se stessa.
«Di quale secolo?», trattiene una risata il ragazzo a guardare quella vecchia pazza.
La donna gli rivolge uno sguardo severo e dice: «Del Novecento».
«Bella, ti ricordo che siamo nell’aprile 2006».
«Lo so».
«Ah sì? E allora, come avresti potuto cantare quasi un secolo fa?».
Per la prima volta, Marianita gli rivolge un sorriso di vera tenerezza. S’accomoda un po’ i capelli e dice: «Per noi, il tempo non ha più importanza».
«Per noi chi?», replica con una smorfia di disgusto il ragazzo.
«Noi, i morti».
Vlady resta un attimo sgomento, poi esce dal salone dicendo: «Mi vesto e me ne vado. Tienili pure i tuoi soldi, ti serviranno per uno psichiatra, uno buono».
«Dove vai?», dice Marianita.
«Fuori! Aria! Qui soffoco!».
Lentamente, la donna si dirige nell’altro salone. Vlady si sta vestendo.
«Non puoi più andare da nessuna parte», dice la donna.
Senza ascoltarla, il ragazzo finisce di vestirsi e va verso la porta d’entrata. Mette la mano sulla maniglia e, con un tuffo al cuore, sente la mano attraversare il metallo. La maniglia sembra un puro gioco di luce. Vlady rivolge lo sguardo attonito alla donna che, sorridendo lieve, s’avvicina a lui, lo prende per la mano e lo conduce alla finestra aperta.
«Guarda», sussurra.

Il ragazzo si sporge e, giù a terra, ai piedi del robusto glicine in fiore, in mezzo a una pozza di sangue, vede un corpo fracassato, il suo.