Giovanni Buzi: Frammento n°376 (2001)

 

Testo di Giovanni Buzi sui Frammenti

I Frammenti prendono vita negando l’unità e nello stesso tempo cercando di ricrearla. Prendono origine da opere figurative, ma negano la figuratività, ossia la riconoscibilità diretta della cosa rappresentata, non escludendo l’allusione a una nuova realtà che l’occhio dell’osservatore è incitato a interpretare, ricreare, modificare.
I Frammenti hanno origine da differenti mie opere figurative più vaste in dimensioni. Un giorno, guardando una di esse, ho avvertito come una forza che si sprigionava da dietro la superficie, potente e autoritaria, voleva frantumare la carta come fosse stata vetro. Vedevo le schegge, i frammenti dell’opera proiettarsi nello spazio, vagare, sovrapporsi, non per disperdersi e sparire, ma come alla ricerca d’una nuova unità.
Non ho fatto altro, non senza esitazioni, che dare forma a questa forza. Ho preso le forbici e ho cominciato a tagliare, spezzettare l’opera. I primi tagli sono stati i più difficili, la mano esitava, s’arrestava all’incontro della carne e del vuoto del cielo, ma passate le prime paure, ha continuato a frantumare, lasciando a volte un viso, un piede, una mano intatti.
Per caso alla radio, dopo un pezzo di Mozart, mio compositore preferito, seguiva un brano di musica contemporanea. Automaticamente mi sono alzato, come sempre, per cambiare stazione, ma avvicinandomi, di colpo, comprendevo. Strano a dirsi, ma « comprendevo » quella musica. Schegge anch’essa d’una improbabile unità armonica.
Questo lo dico ora, dopo che l’emozione del momento è passata. In quegli istanti, in quei pochi passi che mi dividevano dal cancellare quei suoni, ho vissuto soltanto una grande emozione : « comprendevo » ! Come spiegare, trasmettere ad altri, anche a se stessi, come e perché si è « compreso »...
Quei suoni e me erano un tutt’uno. I miei frammenti sparsi a terra alla rinfusa vibravano come ciechi che avvertono un amico nel buio.
Mi sono di nuovo accovacciato a terra e ho ripreso a tagliare, tagliare. Braccia e alberi, toraci e templi. Vedevo frantumarsi le mie care pitture. Non le avrei più riviste intere, non avevo neanche una foto. Perché distruggerle ? Una sorta d’angoscia mi prendeva, un vuoto allo stomaco. Avevo già provato quella sensazione ?...
Continuavo però a tagliare rettangoli, quadrati, pochi triangoli di varie dimensioni. E quelle pitture erano felici, liberate ! L’aria circolava tra un polso e la sua mano, le fronde e il tronco dello stesso albero. L’acqua d’una fontana diventava vasta come il mare e quell’angolo di cielo conquistava lo spazio dell’assenza, del nulla che ora lo divideva.
Avevo conquistato il nulla. O meglio, lo spazio m’aveva conquistato. Stavo lì, posato come un sasso a terra e avevo la sensazione di volare, d’essermi io stesso frantumato e vagare, a pezzi, nell’infinito. Un braccio verso chissà quale luna, un piede perso in un buco nero, la testa a rintracciare l’orbita d’un pianeta.
Ma quei frammenti non erano pienamente soddisfatti della loro assoluta libertà. Una nuova forza, altrettanto potente, li raggruppava, li sovrapponeva, cancellando alcune parti, scoprendo nuove e infinite combinazioni di forme, abbinamenti di toni. Si scontravano e respingevano, s’attiravano e s’allontanavano magnetizzati. Cercavano un segno, una forma, un brandello di colore per colmare la loro infinita libertà. E mi divertivo come il circolo degli dei che s’inebriano d’ambrosia sull’Olimpo a guardare le piccole, tragiche vicende degli uomini. Quel quadrato giallo-ocra gridava come una bestia al macello su un frammento di verde striato di blu, un triangolo affondava i suoi spigoli taglienti sotto la carne rosea di quella che era stata una statua riscaldata da un tramonto. Una lancia color cielo affogava in un oceano di carboni spenti.
Ma all’improvviso, inaspettato, il segno nero d’un quadrato color bronzo si saldava in un campo giallo d’altri segni. La loro folle corse solitaria nello spazio era conclusa. Una calma assoluta emanava da quell’accordo. Una pace nuova. Un vasto respiro.
Accanto, una lancia azzurra restava conficcata per sempre sulla pelle striata d’un pesce enorme che vagava lento negli abissi. Un faro bloccava per incanto una tempesta d’onde verdi. Una finestra s’apriva su un giardino di gialli pietrificati.
Un mondo nuovo si presentava ai miei occhi e ad ogni felice incontro dei pezzi di carta colorata le mie membra vaganti nello spazio si riaccorpavano. E potevo scalare montagne di ghiacciai rosso-bruno, riposarmi all’ombra di quadrati trasparenti o perdermi felice tra coralli smeraldo.
Ma la felicità, si sa, non dura che pochi attimi. Di nuovo le mie mani rabdomantiche cercavano nuovi mondi, nuovi spazi.
Poteva capitare che un quadrato di smaglianti colori e segni iridati veniva respinto da ogni altro pezzo di carta. Restava, zitella alla finestra, ad aspettare il suo principe azzurro, mentre la sua bellezza si fa sempre più opaca, fino a confondersi in un mare nero o bianco. Isolata, come un urlo nel silenzio. E io con lei, più di lei.
Ma altri sciami di frammenti invadevano il mio sguardo. Frantumi di cielo e vento, di campi di grano e metalli.
E il gioco ricomincia, sempre lo stesso e ogni volta differente.
 
Giovanni Buzi
Bruxelles, 1995

P.S. Le parole, i colori e le note : le più belle e le più vere delle menzogne.

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