Foto del Castello Ruspoli di
Vignanello e del suo Giardino all'italiana
Inizio
del primo capitolo
Barberona abitava accanto a noi.
S’entrava dallo stesso portoncino e dopo una prima rampa di scale, a sinistra
c’era la nostra porta, continuando a salire, a destra c’era la sua.
La grande casa era stata divisa in due appartamenti, un labirinto di camere
e camerette, scale che scendevano e salivano, stretti corridoi, soffitte, cantine,
stanze dietro a pareti di legno. A volte, aprendo un armadio o scostando una
tenda, mi ritrovavo in casa di Barberona.
All’esterno le due metà erano immediatamente riconoscibili dai
diversi colori dell’intonaco: un’indecifrabile tonalità consumata
dal tempo la nostra, quanto fresca di verde acqua, rosa pesca, azzurro cielo
l’altra, dipinta ogni anno in un colore diverso. La mia infanzia veniva
così scandita non dal numero incolore degli anni, ma dal succedersi delle
tonalità dell’arcobaleno sulla facciata della casa di Barberona.
Lei, placida, enorme, baffuta, vestita sempre con ampie vesti fiorate dai colori
terrosi se ne stava tutto il giorno in pantofole a scegliere la cicoria in cucina,
ad impastare il pane, a rigirare la polenta nel paiolo di rame appeso nel camino.
Non usciva mai e la gente si chiedeva perché spendesse tanti soldi a
far ridipingere la facciata di casa dal momento che non poteva nemmeno vederla.
Un altro mistero era la sua età, a giudicare dal figlio settantenne,
Peppe il Giardiniere, poteva avere anche cent’anni, ma chissà...
mio nonno, ottuagenario, diceva di ricordarsela sempre così.
Barberona aveva un debole per me e, devo confessarlo, io per lei. Le sbucavo
spesso in cucina e mi diceva,
- Brutta scimmia, ancora tra i piedi! Un giorno o l’altro t’infilo
nello spiedo e ti faccio arrosto nel camino!
Io ridevo e le saltellavo intorno,
- Vediamo se m’acchiappi... vediamo se m’acchiappi...
Afferrava lo spiedo e mi rincorreva muovendosi a fatica, come un dinosauro che
insegue una farfalla, s’appoggiava poi ad uno spigolo del tavolo e col
fiatone diceva,
- Ti farò arrosto domani - e riprendeva ad occuparsi delle cose sue.
- Di che colore farai ridipingere la casa quest’anno, Barberona?
- Non ci ho ancora pensato... - rispondeva con arie da gran dama e da stratega,
- un colore è una cosa importante, mica si può deciderlo così
in cucina.
- Ma tu sei sempre in cucina, dove ci pensi se non qui?
Posava allora il mestolo, s’asciugava le mani ricolme d’anelli sul
grembiule e sedendo su una minuscola seggiola che scompariva del tutto sotto
le gonne mi metteva sulle ginocchia,
- Decidere un colore, caro mio, è più importante d’ogni
altra cosa al mondo. Devi sapere che non ci si può pensare lavando l’insalata
o pelando le patate; c’è bisogno di concentrazione. Prima cosa
devi chiudere gli occhi, così... - abbassava le palpebre rigate di mille
graffi, - poi pensarci... - e restava lunghi minuti immobile quasi senza respirare.
Nella stanza ogni cosa rimaneva in silenzio, il tavolo, le seggiole, i piatti
nella credenza... niente si muoveva, solo quel gioco d’ombre di rami e
foglie che il sole proiettava su una parete bianca. Il tempo passava e io non
vedevo nessuno dei colori belli che apparivano sull’intonaco. Barberona
teneva gli occhi chiusi, le braccia abbandonate sul grembo, poggiavo la testa
sul suo seno e respiravo il profumo tiepido di cenere e acqua di lavanda. Udivo
appena il battito del suo cuore, flebile come quello d’un passero, a momenti
avevo l’impressione di non sentirlo più.
- Barberona, Barberona!... - prendevo a scuoterla e a pizzicarle le guance,
il collo, le mani.
- Scimmia! - s’alzava lei adirata, - tu non troverai mai un colore! -
e non mi voleva più vedere per l’intera giornata.