Giovanni Buzi: Passeggiate romane

2001

estratto

 

 

Vedo un’ombra scivolare dietro un vicolo.
Sarà un gioco, uno scherzo della luce?...
La seguo.
Intonaci screpolati, porte chiuse. Frammenti di statue esplose imprigionati su una facciata di rare finestre. Da un balcone scende una sontuosa ramificazione di gerani rosso sangue.
Il vicolo è deserto.
Passo la mano sul muro tiepido.
Sulle ombre colorate d’un affresco qualcuno ha tracciato con una punta affilata parole ormai illeggibili. Seguo con le dita quel tatuaggio cercando di rintracciare ogni lettera, ricomporre un significato. L’acqua e il vento hanno consumato, mutilato i segni. Ogni interpretazione è vana.
Due macchie scure su un ovale farebbero pensare a due occhi, uno sguardo che attraversa le mura. Una sagoma celeste a tratti scopre il color carne dell’intonaco, il bianco della calce, il rosso cupo dei mattoni. Sullo sfondo la parvenza d’un paesaggio con nuvole e fronde d’alberi. Il graffito incerto d’una ‘erre’ seguita da una più leggibile ‘ti’ ed ‘e’. Chi avrà tracciato, quando, e perché su un affresco? Che messaggio?
Il suo nome, quello della persona amata, un’imprecazione, una preghiera, una data... O non è che l’invocazione d’un dio pagano sulla larva d’una Madonna... Quel graffito resta incomprensibile, illeggibile la carne, le stoffe, il cielo.
Veloce dietro un angolo serpeggia l’ombra che credevo persa. Le corro dietro e mi ritrovo in una piazza silenziosa, raccolta in un perimetro irregolare. Allagata di luce.
Un raggio obliquo taglia un austero palazzo: metà della facciata resta in una penombra violacea, l’altra s’offre nuda come una pesca sbucciata. La polpa rosa arancio rende visibile ogni fibra, ogni sgranatura.
Le persiane chiuse, il portale sprangato. S’indovina il silenzio delle stanze vuote, l’odore della polvere, il rancido delle pareti. Forse sotto le lenzuola bianche il massiccio mobilio è già putrefatto. Basterebbe aprire una finestra e un colpo d’aria sgretolerebbe gli assi di noce, gli intagli e le volute dorate, gli incastri delle poltrone e degli armadi. Tutto crollerebbe in un sordo dissolversi, in una cascata di pulviscolo qua e là lucente degli argenti delle specchiere.
Le lenzuola si sollevano stanche di coprire sarcofagi di ricchezze putrefatte, s’animano della lattea essenza dei fantasmi e ricadono sui pavimenti d’intarsi marmorei. Solitaria, in fondo ad un’infilata di saloni, in una nebbia di polvere, resta una statua ammantata, il braccio levato verso l’orizzonte in un gesto vago.
La piazza è vuota. Dov’è la gente, tutti i milioni di persone che vivono a Roma ?...
Ogni rumore è scomparso. Tutto tace in un silenzio quieto, appena velato da un brusio soffocato. M’avvicino ad un portale aperto. Entro in un atrio dalle alte colonne, avanzo e mi ritrovo in un vasto cortile.
L’intonaco ha un colore caldo, dorato, appena smorzato da un tono verdastro. Fontane e getti d’acqua zampillano dalle pareti tra alberi, piante e marmi scolpiti che imitano rocce. L’acqua scroscia e si raccoglie in vasche di pietra ricoperte da una pellicola di muschi. Ninfe sorridono tra il verde e i getti d’acqua. Mostri marini affiorano mostrando artigli di rapace e code di serpente.
Da una finestra aperta vedo passare un’ombra; o non è che un soffio di vento contro le tende...
Mi siedo su una panchina. In un angolo, a pochi metri, la metà d’una testa di statua colossale sbranata da un’esplosione, una vertiginosa caduta o un colpo di cannone... In un incavo del marmo sonnecchia un gatto bianco a macchie color ruggine.
Quanto tempo sono rimasto seduto? Tre minuti, tre ore... Lo scorrere del tempo qui non esiste. Ipnotizzato dall’eterno movimento dell’acqua, dai sorrisi di pietra, dagli sguardi bianchi, impigliato tra le trame verde oro rallenta, s’arresta. Rimane sospeso come un insetto vivo preso in una ragnatela.


 

 

 

 

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