Giovanni Buzi: Luci geometriche

1996

estratto

 

Un corpo si stira e s’abbandona, pigra pantera, nella luce bluastra, calda, sulla pietra levigata e liscia come pelle, lucente del vapore che trasuda dalle pareti. Un intonaco indago dalle trasparenze zolfo, rosa. Lunghe striature verde trasparente rendono le mura a tratti leggere, aeree, come se la luce dell’esterno volesse attraversare la materia. Dall’alto trova uno spiraglio, un foro a contatto con il cielo e un fascio accecante trafigge come lama la stanza trasformando lo spazio cubico in un vortice tranquillo d’ombre azzurre, smeraldo, argento.

Un piccolo specchio rettangolare incastonato nelle mura riflette. Apertura magica, pupilla infedele, canale di scambio della luce irreale con la propria immagine. Glissarsi all’interno e scomparire, riflettersi e moltiplicarsi all’infinito.

L’acqua scorre, dappertutto. Trasuda dalle mura, scivola sul pavimento, sgorga da fontane, si rifrange sui corpi, sulle maioliche tatuate da arabeschi stilizzati, appena visibili, scheggiati, velati.

Un attimo, e tutto potrebbe scomparire in dissolvenza.

Il cuore rallenta, le palpebre si fanno pesanti. Lo scorrere lento dell’acqua s’affievolisce e fonde in un brusio ovattato.

Il contatto accidentale, caldo, della mano sulla pietra umida fa socchiudere gli occhi, e la danza di migliaia di invisibili particelle riporta alla realtà.

Senza sogni, ad occhi aperti dimenticare...

Addormentarsi e vedere. Assopire i sensi, confonderli ed osservare l’odore d’umidi incensi, sentire la luce penetrare, ascoltare le pietre.

La mente s’invischia nelle trame azzurre, ocra e si placa nella stretta sinuosa d’una scrittura di sciabolate nere.

*
 

All’aria aperta della medina i colori riprendono corpo. Dei vapori dell’hamman resta una leggerezza strana, un’ubriacatura che cala un velo sulle cose. Sembra ancora che i muri siano attraversabili, penetrabili come sguardi. I suoni fanno fatica a restare isolati, identificabili, tendono a fondersi in un movimento elicoidale, a smussarsi, placarsi, ma un battito regolare, continuo si stacca, ritma colpi di martello su un cuneo che incide un piatto d’ottone, e il tempo riprende consistenza, gli attimi rivivono, scanditi, separati.

Lo spazio non ha ancora identità; le vie s’intrecciano come trame colorate d’un tappeto, persone appaiono e scompaiono dagli spigoli bianchi dei muri, da case che si richiudono come fortezze, scale in muratura che sprofondano in vicoli, salgono e restano sospese.

*

Lungo il mare la città s’apre.

Una distesa di giada sorregge il cielo d’argento fuso. Il bianco delle costruzioni assume una sfumatura celeste che gradualmente scivola al rosa. S’accendono i primi lampioni nelle strade; sfere d’un tono rosa appena più opaco delle mura. Un vento fresco viene da lontano e porta con se odore di salsedine e folate di fumo profumato di miele.
           

Sulla spiaggia gli ombrelloni. Alcuni hanno perso la copertura di paglia e mostrano la struttura di cerchi concentrici di ferro annerito; astratta idea di perfezione ritagliano porzioni di sabbia, mare, cielo. Poche persone passeggiano lente a due, tre, sole. Sul muricciolo che delimita la spiaggia dalla città qualcuno è seduto fumando, guardando il mare, la strada, i tavoli all’aperto dei bar, o semplicemente il nulla. Lo sguardo assorto nel vuoto che s’apre ai suoi piedi, un punto invisibile verso l’orizzonte.

Una musica appare, trasportata da una macchina che rallenta e si ferma un momento sul lungomare. Una voce s’avviluppa come serpente attorno a spirali di note lunghe, fluide, flessibili. Colpi di percussioni ritmano questa danza che sembra materializzarsi, aerea in riva al mare, trasformata in trame visibili.

Arabeschi di voli d’uccelli in gabbie di fil di ferro bianco.

*


 
La luna è velata, a brandelli cancellata da nuvole scure che scorrono veloci. Sulla spiaggia si confondono tracce di passi. Il mare invisibile è limite alla terra, ad ogni passo.

Lontano, le luci d’una nave scompaiono lente.

 

 

 

 

 

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